Teresa De Feo - Intervista a Bianco-Valente, 2005
Bianco Valente: tra macchine intelligenti, paradossi, scenari futuribili e il mistero di quella fucina di crittografie ancora insolute chiamate cervello con le sue immagini svaporate poggiate su strutture di una logica in eludibile. Arte elettronica? No.
Limitante. I due artisti sono interessati a quella linea di confine che separa il vivente dalla sua riproposizione artificiale, alla vita nelle sue articolate relazioni, quelle che ormai da tempo suscitano l’interesse di tutta la comunità scientifica, parliamo di dinamiche complesse, logiche vitali su cui anche l’arte sembra interrogarsi.
Video ed immagini digitali che compongono diluite composizioni di una percezione del mondo che si sta facendo attraverso complessi processi biochimici, veloci correnti e guizzi sinaptici (Mind Landscape, Untitled).
Due macchine di Turing che dialogano vicendevolmente, un ping pong di limiti e possibilità delle intelligenze artificiali: un gioco perverso (Killing Time).
Essere unicellulari, in lotta per la sopravvivenza, si evolvono nuotando tra bit e codici informatici (Alife). Miliardi di cellule strutturate ed organizzate, percezione corticale, immagini allucinate, droghe chimiche (JSR). Una cartografia celebrale come una mappa stellare (Relational Domain).Alcuni “frame” della ricerca dei due artisti napoletani.
Approfondiamo. Bianco-Valente. Li abbiamo intervistati.
Teresa De Feo
Cominciamo dall’ultima installazione Relational Domain presentata alla galleria V.M.21 di Roma.
Come molti vostri lavori si gioca sulla rappresentazione di processi cerebrali invisibili che sottostanno a quel lavoro di mediazione che ci permette di relazionarci con il mondo, di figurarlo. Lavoro di figurazione che sembra non poter essere scisso dal nostro bagaglio immaginativo fatto di ricordi, passate esperienza, rielaborazione e montaggio inconscio, che pare sempre interferire con la possibilità di una oggettiva rappresentazione della realtà, evidentemente impossibile.
Con questa installazione mi sembra che questa attenzione ai processi cerebrali, legami sinaptici, meccanismi biochimici, legati alle dinamiche percettive, al ricordo, che ha sempre caratterizzato il vostro lavoro, si stacchi dal risultato finale, un’immagine mentale, ma voglia invece tradurre in immagine lo stesso funzionamento cerebrale: i suoi percorsi, le sue mappe processuali.
E’ una sorta di ribaltamento? Evidenziare il processo anziché il risultato finale?
Bianco-Valente
Nel corso degli anni, l’orizzonte di riferimento della ricerca che portiamo avanti si è ampliato, se prima l’attenzione era ossessivamente focalizzata sui processi cerebrali e sul tentativo di rappresentare immagini mentali, adesso sono entrati in gioco molti altri fattori a stimolare il nostro lavoro: i paradossi e lo stupore che di qui a breve verranno suscitati dalle prime timide interazioni fra entità intelligenti artificiali e esseri umani per esempio, ma anche il fatto che la scienza, a tutt’oggi, è di fatto incapace di descrivere o predire le dinamiche presenti in natura in maniera plausibile.
Il metodo attuato è quello di scomporre un problema grande e complesso in tanti problemi piccoli e meglio gestibili, nella speranza di poter poi riunire i pezzi del puzzle per avere la soluzione del tutto. Ma le cose non stanno propriamente così, e Relational Domain, oltre che a rappresentare una sorta di lenta navigazione attraverso una mappa mentale tridimensionale, guarda caso rappresenta anche le dinamiche naturali complesse, dove ogni elemento è legato a tutti gli altri mediante una fittissima rete connettiva, e dove il più piccolo cambiamento provoca, grazie ad un meccanismo di causa/effetto, un cambiamento più o meno importante di tutta la struttura. L’esistente è in continuo mutamento e quindi la sua rappresentazione non può che essere dinamica. Questo può essere vero per la rappresentazione della realtà che manteniamo viva nel cervello e che ci aiuta ad interagire con essa, ma va bene anche per rappresentare un modello plausibile delle dinamiche naturali.
T.D.F
Giocare sul rapporto visibile/invisibile (penso a Jsr) ed in particolare sulla possibilità di evidenziare in immagini processi, come i meccanismi di funzionamento organico in altro modo celati. L’arte è questo? Permettere la visibilità dell’invisibile?L’artista deve svelare?
B-V
Un’opera d’arte deve essenzialmente suscitare emozioni, altrimenti rischia di diventare un freddo gioco intellettuale fine a se stesso. Per comunicare opinioni esistono i saggi, per le storie esiste la fiction, l’arte è essenzialmente uno scambio emotivo e quella di buona qualità deve avere la peculiarità di essere quanto più universale possibile, permettendo questo scambio anche fra menti che non hanno molto in comune fra loro. Se hai bisogno di studiare per emozionarti, sei probabilmente di fronte ad un gioco esasperato o perverso.
Suona strana questa cosa detta da noi, ma il nostro sforzo costante è quello di mantenere sempre presente questo primo livello di lettura in ogni opera.
T.D.F
In alcune interviste avete spesso sottolineato di utilizzare la tecnologia solo in modo strumentale, di non esserne sedotti. Ma mi chiedo, quanto la tecnologia ha influenzato la vostra ricerca , dal momento che spesso nel vostro lavoro emergono interrogazioni su limiti e possibilità dello strumento tecnologico,penso a lavori come Killing Time e Breathless. In sintesi, quanto lo strumento tecnologico orienta la ricerca di artisti che non amano definirsi artisti digitali?
B-V
Se per “Breathless” il discorso era effettivamente incentrato sulla macchina intesa in senso fisico e sulla sua capacità di produrre al momento una voce verosimile, per “Killing Time” invece è incentrato sulla presunta intelligenza delle due macchine coinvolte nell’opera.
Per quanto ci riguarda, queste macchine potrebbero anche essere fabbricate con rotoli di carta igienica, in quanto la teoria del lavoro non cambierebbe di una virgola. La realtà delle cose è che più della macchina in sé, ci affascinano le sue potenzialità non ancora espresse.
Con l’uso di software adeguati, anche i computer che oggi stampano le ricevute fiscali negli studi medici potrebbero turbarci con i loro atteggiamenti pseudo intelligenti e innescare paradossi senza risposta. È questo il vero fascino delle macchine quiescenti ed inoperose.
T.D.F
Sempre in riferimento agli strumenti ed al linguaggio digitale avete spesso dichiarato di amare il video, ed in particolare il video digitale, in quanto avete trovato similitudini molto forti fra immagine elettronica ed immagine mentale (vostro centro di interesse), entrambe non molto risolute e tendenzialmente volatili, entrambe frutto di un codice. Allo stesso modo avete dichiarato di essere interessati in modo peculiare ai “meccanismi soffici”, a tutto ciò che è “software”, dai processi della macchina al contenuto della nostra mente. Tutto questo sembra far intravedere una sorta di insofferenza all’hardware, al supporto, al corpo o alla materia come limite. La materia, il corpo, l’hardware, per Bianco-Valente è davvero un limite, qualcosa di limitante?Andiamo verso la smaterializzazione?
E se è così è un processo che trovate auspicabile?
B-V
Il corpo è una gran bella cosa, tutto il gusto di vivere vi è essenzialmente legato. Cose come il sesso ed il cibo, ad esempio, non avrebbero grande appeal per entità completamente smaterializzate, però il corpo nasconde un’insidia: come tutti gli equilibri instabili è destinato a cessare, portandosi via tutte le emozioni vissute ed immaginate, i sogni e le intuizioni. In questo senso, poter sganciare la mente dal corpo non sarebbe male, ma è un discorso controverso e probabilmente i tempi non sono ancora maturi.
T.D.F.
In realtà nel vostro lavoro Unità minima di senso, intravedendo il prossimo ingresso di macchine intelligenti, avete per così dire fatto il “back up” della vostra memoria, trascrivendo esperienze, ricordi, immagini su una sottile carta velina lunga 3,5 Km! (a tutt’oggi) ai fini di fornire materiale cognitivo a queste futuribili creature artificiali. Dare in eredità la propria memoria ad una macchina, una strada verso l’immortalità?
Credete possibile un giorno affidare ad una macchina il nostro “bagaglio soffice” per continuare ad esistere “come entità coscienti immateriali”? E se si, auspicabile?
B-V
Il problema delle entità intelligenti artificiali, che saranno attivate di qui a breve, è proprio quello di avere la cognizione (anche se per grandi linee) del mondo nel quale saranno chiamate ad interagire. Ci vorrebbero anni per permettere ad ognuna di queste macchine di sviluppare le proprie esperienze in maniera diretta, e quindi abbiamo pensato che descrivere su un nastro di carta le esperienze principali che hanno segnato la nostra crescita personale sarebbe stato sicuramente d’aiuto in questo senso, costituendo almeno un buon punto di partenza.
Ovviamente, anche questo lavoro è un paradosso, una provocazione. Il tipo di carta che abbiamo scelto è talmente fragile che non c’è certezza che possa sopravviverci, ma comunque sia, vedere i 3 chilometri e mezzo di nostre riflessioni, ricordi ed esperienze ammassate sul pavimento, è veramente impressionante e dà subito l’idea di trovarsi di fronte alla complessa rete di informazioni caoticamente ammassate nel cervello.
T.D.F.
Il vostro interesse oltre ad indirizzarsi verso meccanismi di funzionamento cerebrale legati alla percezione ed il ricordo, sintetizzando al problema insoluto della “coscienza”, e di conseguenza alle ricerche aperte in questa direzione dall’intelligenza artificiale, si rivolge anche alle dinamiche complesse dei nuovi studi sulla vita artificiale. Parliamo, ovviamente in entrambi i casi, di sistemi complessi, con le loro caratteristiche di riconoscibilità nei termini di adattività, auto organizzazione, emergenza. Non possiamo allora non far riferimento al Santa Fe Institute del New Mexico. Per il progetto Alife avete parlato di una collaborazione con alcuni ricercatori di questa fucina di grandi cervelli ed idee. Vi va di parlarne?
B-V
Abbiamo per la prima volta letto di questo istituto nel libro “Complessità” (Complexity), di M. Waldrop, che ne tracciava la storia a partire dalla sua fondazione, e dedicava ampie pagine alle biografie dei principali personaggi che ne animano le attività.
Fra le altre cose, ci hanno subito colpito le ricerche sui simulatori software, in grado di predire le emergenze evolutive in un ambiente naturale, simile a quello che era possibile trovare sulla terra all’epoca delle prime forme di vita che la abitavano.
Le prime versioni di questi simulatori erano molto scarne dal punto di vista grafico, essendo progettate essenzialmente per fornire dati numerici relativi alle tendenze emergenti.
Qualche tempo dopo, abbiamo avuto una commissione per la realizzazione di un’installazione permanente in una stazione della metropolitana, e abbiamo subito immaginato l’uso di uno di questi simulatori, modificato nella grafica, per rendere le dinamiche evolutive non in termini numerici, ma in immagini, come se ci si trovasse veramente ad osservare l’ambiente simulato. Abbiamo contattato alcuni giovani ricercatori dell’istituto, i quali ci hanno risposto entusiasti della cosa e pronti ad attivare questa collaborazione.
T.D.F.
Parliamo di Alife, allora. Progetto commissionato dall'Ansaldo Trasporti Sistemi Ferroviari per la stazione De Ferrari della Metropolitana di Genova. Si tratta di una simulazione di vita artificiale (Artificial LIFE) proiettata in tempo reale negli spazi della stazione e che andrà avanti all’infinito. I semplici esseri “unicellulari” iniziali, negli anni, andranno a riprodursi ed evolveranno in diverse strutture aggregate via via sempre più complesse, in una lenta ma continua evoluzione casuale.
Il vostro interesse e intervento, come avete dichiarato, riguarderà il modo in cui verrà rappresentato lo scenario evolutivo nel quale interagiranno questi piccoli esseri viventi e la possibilità da parte dei frequentatori della stazione di seguire questa crescita e farne indicatore di una propria personale evoluzione.
Un angolo di vita che brulica alle spalle di uno spazio pubblico di operosa attività distratta. Impazzire, dominare, liberarsi dal supporto, sviluppare coscienza.
Credete nella possibilità futura di macchine o entità artificiale evolute a tal punto da generare una “coscienza”?
B-V
Eccoci finalmente al punto! Visto che i ricercatori che studiano il cervello non sono ancora d’accordo sull’origine organica di concetti astratti, come coscienza, ricordo, desiderio, come potremo mai capire se una macchina ritenuta intelligente per le sue attitudini vedrà emergere “dentro di se” autonomamente queste peculiarità umane?
T.D.F.
Rimanendo sempre sulla nuova epistemologia della complessità e rispetto al clima di dialogo e collaborazione interdisciplinare da essa generato, credete possibile che l’artista possa entrare a pieno titolo in questo dibattito e dare, di più, un contributo rilevante all’interno di questa sfaccettata ricerca? Se si, in che modo?
B-V
Siamo ben contenti di non aver alcun obbligo nel dover dimostrare scientificamente le nostre teorie e che i lavori che realizziamo possono fermarsi al livello della provocazione o del paradosso.
D’altro canto, molti fra gli scienziati che perseguono questo tipo di ricerche devono avere la sensibilità e la capacità di rimettersi in gioco ad ogni nuovo passo, che è tipica degli artisti. Possiamo quindi considerarli artisti essi stessi, anche se si esprimono con linguaggi differenti ed in un mondo parallelo (ma non alternativo) a quello delle arti visive.
T.D.F.
Per concludere, avete citato tra i vostri riferimenti il bellissimo saggio di Richard Dawkins, “Il gene egoista” secondo cui i geni avrebbero trovato nella replicazione del proprio codice una sorta di immortalità e, quindi, l’evoluzione sempre più complessa di organismi viventi sarebbe un modo attraverso il quale essi garantivano la loro sopravvivenza. In un intervista, a questo proposito, avete accennato ad una inversione di tendenza attraverso le dinamiche di manipolazione genetica. In che senso?
B-V
Le conclusioni a cui arriva Dawkins nel suo libro sono che, per milioni di anni, i geni hanno utilizzato tutto lo spettro delle forme viventi presenti sulla terra, per perseguire il loro scopo: duplicare il proprio codice, generazione dopo generazione, verso l’immortalità.
Con il passare del tempo, la complessità degli esseri viventi (portatori delle informazioni genetiche da duplicare) è via via aumentata, fino a giungere, in una delle sue molteplici sfaccettature, all’uomo, il quale, grazie al suo cervello e agli strumenti che è stato in grado di affiancarvi, riesce ora a comprendere e manipolare le dinamiche evolutive legate al codice genetico.
E’ come se ai geni, in un continuo gioco al rialzo, fosse sfuggita la cosa di mano. Adesso sarà l’uomo a gestire i geni e non più il contrario. Con tutte le implicazioni positive e negative che la cosa comporta.
T.D.F.
Apocalittici o integrati rispetto alle nuove frontiere dell’ingegneria genetica, argomento reso ancora più di attualità dalle controversie generate dall’ultimo referendum?
Come si pongono Bianco e Valente davanti a questi problemi di grande responsabilità etica?
B-V
La nostra fortuna è che al mondo esistono nazioni totalmente indipendenti dai condizionamenti dogmatici legati ai vari credo religiosi. Sarà probabilmente in Cina oppure a Singapore che verranno fuori tutti gli aspetti positivi legati a questo tipo di ricerche. Il tempo ci ha dimostrato che non sarà certo un medicinale a base chimica a poter fermare il cancro. Per questo tipo di malattie, come per molte altre che ancora ci assediano, l’unica risposta valida è la genetica.
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Tratto da digicult.it, settembre 2005