Helga Marsala, Sulle tracce di Calvino. Le mappe invisibili di Bianco-Valente, 2008
“La forma più semplice di carta geografica non è quella che ci appare oggi come la più naturale, cioè la mappa che rappresenta la superficie del suolo come vista da un occhio extraterrestre. Il primo bisogno di fissare sulla carta i luoghi è legato al viaggio: è il promemoria della successione delle tappe, il tracciato di un percorso. Si tratta dunque di un’immagine lineare, quale può darsi solo in un lungo rotolo”(1).Così Italo Calvino, nel suo Collezioni di sabbia, suggeriva un precisoconcetto di cartografia: la tipologia di mappa più autentica non è quellaa cui ci hanno abituato libri ed atlanti, struttura bidimensionale che unosguardo a volo d’uccello distende sul foglio, a favore di una letturapanottica.
La mappa primordiale, la più intima e concreta, ha a che farecon la dimensione vissuta del viaggio, nasce da uno spostamento insoggettiva che punta in avanti srotolando una linea progressiva apertaverso mille, possibili direzioni. Così, la carta si compone via via, unpasso dopo l’altro, collezionando sguardi, sentieri, dettagli, angolazionipersonali. La carta si scrive lentamente e dall’interno, al di qua dellecose guardate e delle strade battute, a partire dal corpo che nelmovimento si incarna e si disegna.
La dimensione del viaggio è centralenella ricerca del duo napoletano Bianco-Valente, che sull’idea di mappae di spostamento ha costruito il suo iter creativo. Viaggiare diventa effettiva esperienza di scrittura corporea, percettiva, immaginativa: un modo per determinare, di volta in volta, la trama del proprio “sentire”, modificando sé stessi in relazione alle energie catturate nei luoghi. Gli artisti si trasformano in antenne, radar epidermici e neuronali in grado di sintonizzarsi con le molteplici variabili geografiche intercettate ad ogni tappa. La mappatura della propria identità muta al variare dalle coordinate spazio-temporali, delle accumulazioni mnemoniche, delle alterazioni psico-fisiche.
Dal 2001 Giovanna Bianco e Pino Valente portano avanti un progetto ambizioso, destinato forse a non trovare una forma capace di contenerlo, di renderlo “opera.” Con RSM i due artisti stanno tentando di cambiare il corso del proprio destino, attraverso spostamenti geografici programmati secondo complessi calcoli astronomici. Un processo aperto, più che un progetto in senso stretto.
Alla base c’è una teoria formulata negli anni ’70 da un astrologo napoletano, Ciro Discepolo, che a sua volta trasse ispirazione da alcuni studi medievali sulla Rivoluzione Solare. L’idea è che si possa influì sulla propria esistenza studiando lo zodiaco e organizzando, in base ai transiti degli astri, degli spostamenti intercontinentali nel giorno del proprio compleanno astrale. Se la fotografia astrologica del cielo al momento del compleanno è responsabile degli eventi di un intero anno, spostandosi da un punto all’altro del globo l’immagine risulterà differente, a causa della rotazione terrestre: è così che diventerebbe possibile monitorare l’influsso dei pianeti sulle nostre vite, disegnando una Rivoluzione Solare mirata.
Bianco-Valente, decisi a testare la tesi di Discepolo, sono già stati in Canada, Siberia, Yucatan, Russia, Labrador, Brasile, Isole Azzorre, India, Corfù, Marocco, Australia… cercando mete non turistiche e astrologicamente compatibili col migliore dei cieli possibili. I percorsi celesti e terresti corrono paralleli, incrociandosi per assurdo all’infinito, là dove dimensioni apparentemente lontanissime diventano parte di un unico piano universale. Queste ardite rifrazioni tra carte e schemi di natura eterogenea caratterizzano la poetica deidue artisti. Mappe geografiche, mappe astrologiche, mappe cerebrali,biologiche ed emotive arrivano a corrispondersi sulla base di struttureoriginarie rintracciate a partire dalla materia estesa, seguendo processiastrattivi e combinatori.
Ancora ne le Collezioni di sabbia Calvino, a proposito del catalogo pubblicato nel 1980 per la mostra parigina Cartes et figures de la terre (Centre Pompidou), scrive: “In un saggio del volume François Whale osserva come la rappresentazione del globo terracqueo comincia soltanto quando le coordinate usate per rappresentare il cielo vengono riferite alla Terra. I parametri celesti (asse polare e piano equatoriale, meridiani e paralleli) trovano il loro punto d’incontro nella sfera terrestre, ossia al centro dell’universo (errore fecondo quanto altri mai)”(2).
In mostra, racconta poi Calvino, tra le molte meraviglie spiccavano due sfere di 12 metri di circonferenza - un mappamondo e un globo celeste - commissionate da Luigi XIV: una rappresentava “il firmamento com’era il giorno della nascita del Re Sole, con tutte le allegorie zodiacali dipinte in toni d’azzurro”(3), mentre l’altra era piena zeppa di figure ed iscrizioni “con le notizie trasmesse da esploratori e missionari che colmano i vuoti dove ancora la forma dei luoghi resta incerta”(4).
I due oggetti diventano efficace emblema dell’atavica corrispondenza tra quadri celesti e percorsi terrestri, tra astrologia e geografia, tra osservazione telescopica e nomadismo.
Ma la disamina dello scrittore prosegue, tracciando un filo che dalla terra arriva al cielo, per ritornare fino alla mente umana: “La descrizione della terra, se da una parte rimanda alla descrizione del cielo e del cosmo, dall’altra rimanda alla propria geografia interiore”(5). Interessante caso di relazione tra frenesia cartografica ed esplorazione psichica è quello di Opicinus De Canistris, prete visionario del ‘300 che tracciò centinaia di carte geografiche del Mediterraneo, ossessionato dal bisogno di interpretarne il significato; all’interno inseriva figure umane, animali, angeli, mostri, allegorie teologiche, immagini sessuali, commenti legati alla sua vita e vaticini sul destino del mondo.
Così ne parla Calvino: “Caso straordinario di art brut e di follia cartografica, Opicinus non fa che proiettare il proprio mondo interiore sulla carta delle terre e dei mari”(6).
Le bellissime pagine di Italo Calvino - da sempre affezionato ai concetti di mappa, di labirinto, di rete - sembrano suggerire traiettorie perfettamente ascrivibili al lavoro di Bianco-Valente. Relational Domain (2005) è un’opera esemplare in tal senso. Nel blu oltremare della grande videoinstallazione si ricamano immaginarie rotte aereonautiche, i cui nodi di intersezione sono indicati da punti luminosi come astri e da strani nomi di cinque lettere.
Le traiettorie di luce che incidono i cieli rimandano alle articolate mappe cerebrali in cui miriadi di sinapsi intessono tracciati immateriali, responsabili di percezioni, immagini mentali, ricordi, emozioni, intuizioni logiche. La mappa mentale si sovrappone a quella celeste, in una simmetria tra costellazioni e impulsi neuronali. L’idea di interconnessione tra la parti di un sistema ritorna in molti altri lavori, uno su tutti la nuova installazione presentata alla Galleria Contemporaneo di Mestre per la mostra Alfabeto Esteso, The effort to recompose my complexity, una struttura di pattern geometrici che riproducono sottili intrecci (arborei o vascolari) linkati da giunture lineari: una rappresentazione sintetica dell’inesauribile possibilità di moltiplicare strade, traiettorie, accessi, ramificazioni.
Quelle di Bianco-Valente sono mappe effimere, schemi invisibili da cui dipende l’attività cerebrale ma anche il funzionamento di sistemi biochimici, cosmologici, matematici, sociali. Le modalità combinatorie si aprono
all’infinita potenza dell’energia entropica. è Marco Belpoliti, nel suo splendido saggio L’occhio di Calvino, a rilevare come a un certo punto la figura della rete si sostituisca, nella poetica dello scrittore, a quella del labirinto, affiancando e completando quella della mappa.
La rete, immagine adottata a partire da Le città invisibili, è innanzitutto modello scrittorio, compositivo (“ho costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e ramificate”(7)…), ma è anche figura narrativa: il catalogo del Gran Khan, fulcro concettuale del romanzo, è una straordinaria mappa che racchiude ogni più piccolo dettaglio di tutte le città dell’Impero, incluse quelle utopiche o quelle senza forma.
Dice Belpoliti: “La mappa de ‘Le città invisibili’ è la rete dei possibili e degli impossibili - sogno, visione, utopia, immaginazione - gioco combinatorio ma anche trama del mondo. La rete diviene, a partire dalle Città invisibili, la metafora visiva con cui Calvino cerca di catturare il mondo che, imprendibile, si agita sotto il suo sguardo”(8).
Così, riprendendo un modello assai ricorrente nell’estetica, la teoretica e l’epistemologia del ‘900, Bianco-Valente registrano l’emergere del possibile e dell’impossibile all’interno di concrete esperienze processuali, definite attraverso giochi matematici, incastri geometrici, sequenze numeriche; per paradosso, una struttura elaborata secondo regole scientifico-matematiche (un’opera d’arte, un romanzo, una macchina intelligente, una partitura sonora…) non sarà mai solcata da percorsi univoci. Le direzioni saranno molteplici e tutte
simultanee.
Così, quello spasmodico tentativo di cogliere il senso delle cose, di decodificare il mondo mediante mappe e reti, diventa un’operazione utopica e feconda, laddove il rigore granitico della razionalità si infrange contro il caos dell’immaginazione.
Nella trama instabile dell’universo l’accidente, l’errore, la sorpresa diventano l’anima di un dinamismo eccentrico, pluridirezionale. “La scienza cerca di definire il mondo attraverso la matematica, ma non bastano i numeri per definire tutto… ci sono troppe variabili. Occorrerebbe un alfabeto esteso per dare un nome a intuizioni e realtà non spiegabili”(9): le parole di Bianco-Valente problematizzano l’essenza di un lavoro costruito intorno all’idea di griglia interpretativa e alle suggestioni della tecnologia digitale.
I due artisti, sfruttando i linguaggi della scienza, continuano a evidenziare il perpetuo movimento del cosmo e della materia, a cui la mente risponde in maniera creativa, pulsionale, imprevedibile: dal progetto ALife, simulazione di vita artificiale in cui organismi unicellulari si evolvono secondo modelli progressivi di complessità, fino a Tempo Universale (2007), onirica videoproiezione in cui ramificazioni arboree affondano in un tappeto di suoni radio a onde corte, passando per l’installazione Unità minima di senso (2002), che riflette sul tentativo di indurre una macchina a decodificare il mondo tramite nodi di informazione basica. La “tecnologia umanista”(10) di Bianco-Valente utilizza dunque grammatiche e suggestioni proprie del progresso scientifico, per sprigionare una potenza visiva assolutamente umana ed imperfetta.
Il sogno, la deriva fantastica, gli stati allucinatori, le immagini della memoria sono il prodotto di un processo indagativo a più livelli, sospeso tra calcolo e incantesimo, tra illusione e disincanto, tra terra e cielo. Rintracciare un “alfabeto esteso” capace di penetrare la pelle del mondo è l’ultima delle illusioni, poiché, come ammette il signor Palomar, “Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto.
Ma la superficie delle cose è inesauribile”(11). Palomar, straordinario personaggio calviniano affetto da urgenza analitica e conoscitiva, nel suo (fallace) cammino verso la saggezza capirà a un certo punto che l’universo è lo specchio della propria geografia interiore, e allora “traccerà il diagramma dei moti del suo animo, ne ricaverà le formule e i teoremi, punterà il suo telescopio sulle orbite tracciate nel corso della sua vita anziché su quelle delle costellazioni”(12). E cosa troverà laggiù?
Forse incredibili similitudini tra gli abissi dell’animo e le geometrie dello spazio, tra i buchi neri della mente e la luce calma delle stelle? Nulla di tutto ciò. Aperti gli occhi, fatalmente, scivolerà nella stessa, identica imperfezione di ogni giorno, lo stesso quotidiano brulicare di volti e di persone, tra strade conosciute e irregolari.
Ed ecco affiorare, in mezzo a labirinti di galassie, la realtà intima di Palomar: “In fondo, il cielo stellato sprizza bagliori intermittenti come un meccanismo inceppato, che sussulta e cigola in tutte le sue giunture non oliate, avamposti d’un universo pericolante, contorto, senza requie come lui”(13). Cieli imperfetti si specchiano dentro animi inquieti, e viceversa. Mentre evaporano e si ricompongono senza tregua sequenze di lettere e numeri, precipitate in una infinita vertigine sintattica.
Note
1 Italo Calvino, Collezione di Sabbia, Mondadori, Milano, 2002, pag. 21.
2 Ivi, pag.23.
3 Ivi, pag.24.
4 Ibid.
5 Ivi, pag.27.
6 Ivi, pag.28.
7 Italo Calvino, Lezioni Americane, Mondadori, Milano, 2002, pag.80.
8 Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino, 2006, pag.16.
9 Bianco-Valente, conversazione con gli autori, febbraio 2008.
10 Gigiotto Del Vecchio, Bianco-Valente, tra Newton e Cartesio, in “Bianco-Valente, Meu mundo è hoje”, edizioni, V.M.21 Arte Contemporanea, Napoli, 2007.
11 Italo Calvino, Palomar, Mondadori, Milano, 2002, pag.57.
12 Ivi, pag.118.
13 Ivi, pag.119.
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Tratto da Alfabeto Esteso, Bianco-Valente, Dario De bastiani Editore, Vittorio Veneto (TV), 2008