Gaetano Centrone - Bianco-Valente, quando l'arte diventa cosa pubblica, 2019

In un'epoca in cui gli artisti lavorano spesso in coppia – numerosi sono gli esempi nel nostro Paese – un sodalizio esemplare in tal senso è rappresentato da Bianco-Valente, che all'anagrafe sono Giovanna Bianco (Latronico, 1962) e Pino Valente (Napoli, 1967). Residenti a Napoli – senz'altro una delle città più vive per quel che riguarda le ricerche artistiche attuali – sono attivi dal 1994. La dimensione su cui lavorano è quella di un'arte pubblica, fuori dagli spazi angusti riservati agli addetti ai lavori, ispirati a una forte componente etica, sociale e politica nella sua migliore accezione.
Recentemente hanno inaugurato Relational, una densa e importante opera site-specific sulla facciata dell'Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma, che sarà fruibile fino al 10 febbraio 2019. Li abbiamo raggiunti per un'intervista. 


G.C.
Come nasce Relational? Qual è la sua idea progettuale? Trattandosi di una installazione site-specific già realizzata su altri edifici, come cambia ogni volta che viene rimodulata per un nuovo spazio?

B-V
Relational nasce dalla videoinstallazione Relational Domain del 2005, incentrata sulla relazione fra persone, eventi e luoghi. Consideriamo quest’opera il primo frutto del nostro progetto sui viaggi e le influenze astrali, basato su una teoria degli anni ’70 di Ciro Discepolo, che iniziammo nel 2001 ed è ancora in corso.
Nel 2009 ci fu commissionata un’opera di arte pubblica per la città di Potenza e decidemmo di lavorare sulla facciata della biblioteca, un edificio razionalista nel pieno centro della città rimasto in stato di abbandono dopo il terremoto del 1980. Crediamo che lo sviluppo architettonico/urbanistico sia strettamente legato alla socialità di un luogo e che ogni cambiamento nello spazio pubblico si ripercuota inevitabilmente nella vita sociale e viceversa. Perché quindi gli abitanti di Potenza avevano rimosso la presenza di questo edificio fino a non percepirlo neanche più, nonostante lo sfiorassero quotidianamente in auto e a piedi? Ciò che intendevamo fare era reinserire nelle relazioni sociali e architettoniche della città questo edificio che ne era stato escluso, e decidemmo di farlo disegnando una rete di relazioni simbolica sulla sua facciata, e la cosa funzionò, tanto che vennero pubblicati diversi articoli che diedero impulso ai lavori di restauro.
Da allora, molte altre volte ci hanno proposto la realizzazione di quest’opera, ma noi abbiamo accettato solo nelle occasioni in cui l’edificio che ci veniva proposto aveva nel suo DNA una forte connotazione di scambio e di relazione con il contesto sociale circostante. Ovviamente il disegno della costellazione cambia di volta in volta in relazione alle caratteristiche architettoniche dell’edificio.


G.C.
Per noi che seguiamo attentamente il lavoro degli Istituti Italiani di Cultura nel mondo si tratta di una notizia felicissima: raramente le arti visive trovano spazio in questa rete e soprattutto con interventi nuovi. Com'è nata questa fortunata occasione?

B-V
Maria Sica è da pochi mesi la direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma e si è da subito attivata per rimarcare l’importanza dell’edificio che lo ospita. Progettato da Gio Ponti alla fine degli anni '50, fu una realizzazione avveniristica per l’epoca e ancora oggi conserva tutti gli arredi originali disegnati dal grande architetto milanese, che creano un’atmosfera luminosa e coinvolgente. 
L’Istituto, voluto dal mecenate Maurilio Lerici, venne inaugurato esattamente 60 anni fa e la direttrice ha inteso dare grande rilievo a queste celebrazioni dedicando un’intera serata a Gio Ponti. Inoltre, volendo sottolineare la funzione per cui è nato questo Istituto, attivare cioè le relazioni e gli scambi culturali fra Italia e Svezia, ci ha commissionato la realizzazione dell’opera Relational, con la curatela di Adriana Rispoli.
Come si può immaginare è stato per noi molto emozionante avere l’opportunità di interagire con un’architettura così rilevante e possiamo dire di essere molto soddisfatti del risultato.


G.C.
Siete sicuramente tra gli artisti più attivi nell'ambito dell'arte pubblica. È stata una scelta di campo o una lenta maturazione che vi ha spinto inesorabilmente su questo terreno?

B-V
Ci piace l'idea che l'arte non resti confinata in un ristretto ambito di addetti ai lavori, ma che dialoghi e si confronti anche con persone che normalmente non frequenterebbero una galleria o un museo. Questa convinzione si è rafforzata da quando, circa dodici anni fa, abbiamo avviato con Pasquale Campanella il progetto A Cielo Aperto a Latronico, per cui invitiamo altri artisti a conoscere il territorio e a sviluppare un’opera di arte pubblica o un laboratorio che attivi una relazione con il contesto sociale, la storia e/o lo scenario naturalistico della cittadina. A Cielo Aperto è un’importante palestra di vita che continua a mostrarci come può essere rude o pieno di poesia il rapporto fra l’arte e le persone.


G.C.
Siete stati protagonisti di un evento collaterale all'ultima edizione della biennale itinerante Manifesta, in una meravigliosa Palermo. Cosa ne pensate dell'evento? Ci pare che voi foste assolutamente nello spirito della manifestazione, siete d'accordo?

B-V
Crediamo si sia trattato di una felice occasione di scambio fra la città di Palermo e Manifesta, la quale ha potuto disporre di spazi espositivi di una bellezza struggente inseriti in contesti sociali pieni di vita “reale”, non anestetizzati a esclusivo uso turistico.
Anche il tema scelto, Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza era estremamente interessante, ma molti degli artisti invitati hanno presentato lavori incentrati sul disimpegno o sul dato di cronaca, che non sono stati neanche in grado di sfruttare a pieno la bellezza degli ambienti espositivi che in più occasioni hanno fagocitato le opere stesse.
D’altronde basta fare un giro nel mercato di Ballarò per capire come la città sia avanti anni luce su temi come dialogo interculturale e integrazione e non abbia molto da imparare da manifestazioni di questo genere. Ovviamente ci sono state delle eccezioni che da sole hanno ripagato lo sforzo necessario per raggiungere le diverse sedi espositive.
Terra di me, la mostra che abbiamo presentato a Palazzo Branciforte, ha avuto una gestazione di circa un anno e mezzo durante il quale abbiamo sviluppato diversi ragionamenti su come sia cambiata la percezione del Mar Mediterraneo, dall’epoca classica in cui ha permesso la nascita e la diffusione della cultura occidentale, ai giorni nostri in cui molti immaginano il mare di mezzo come una barriera che pretenderebbero invalicabile, rinnegandone così la sua stessa natura.

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