Pietro Gaglianò, La condizione umana, 2012

Plurality is the condition of human action because we are all the same, that is, human, in such a way that nobody is ever the same as anyone else who ever lived, lives, or will live”.
Hannah Arendt, The Human Condition[i]

Nella sua analisi della condizione umana Hannah Arendt chiarisce che il motivo principale dell’intollerabilità della società contemporanea, da lei individuata come società di massa, risiede non tanto nel numero di individui che la affollano, quanto nel “fatto che il mondo che sta tra loro ha perduto il suo potere di riunire insieme le persone, di metterle in relazione e di separarle”[ii]. Lo spazio sociale, composto da comunicazioni verbali e segni condivisi, quell’estensione allo stesso tempo fisica e intangibile in cui si definisce la qualità specifica della civiltà, si è degradata in forme deteriori in cui è difficile fare emergere quelle differenze che rendono necessaria la comunicazione, e quei tratti comuni che la rendono possibile in qualsiasi forma. Al tempo di Internet sono cambiati alcuni termini di riferimento, di natura tecnica e di scala numerica, ma quel “mondo  che sta tra loro” non comprende ancora la capacità di immaginare la pluralità degli individui consapevolmente attivi nella creazione della sfera pubblica.

Attraverso i secoli e le culture la visualizzazione della dimensione in cui avviene (dovrebbe avvenire) questa partecipazione collettiva risponde sempre all’idea di una superficie che accoglie una rete di passaggi, sia essa l’agorà della civiltà greca o il web[iii]: una mappa, una sintesi grafica di uno spazio concreto o virtuale che può riguardare un gruppo più o meno ampio di interlocutori e qualsiasi piano di comunicazione. Giovanna Bianco e Pino Valente sperimentano una possibile interpretazione di questa raffigurazione, comprendendo il contenuto che genera concettualmente la mappa (il suo valore intellettuale) come elemento costitutivo e grafico della stessa. I processi e l’esito del progetto Costellazione di me sollevano inoltre una serie di interrogativi sul senso e sul significato delle mappe, pervenendo ad attuarle come “una pratica operativa che da una parte scava, trova ed espone, dall’altra genera relazioni costruttive”[iv]. Il riferimento dichiarato da parte degli artisti all’universo teorico di Gregory Bateson restituisce la dimensione demiurgica e creativa che appartiene a qualsiasi procedimento cartografico: la capacità di descrivere (funzionalmente) un territorio materiale o immateriale, ma anche di inventarlo (proprio secondo il senso che risiede nell’etimologia di questo termine, il latino ‘invenire’ che si traduce come ‘scoprire’, ‘trovare’).

Le Costellazioni di Bianco-Valente danno notizia di qualcosa già avvenuto (lo scambio di contenuti e contatti tra soggetti diversi e tra loro remoti) ma, principalmente, mostrano la trama complessa delle traiettorie lungo le quali si sono attuati questi rapporti e la concatenazione latente tra i diversi interlocutori. La specificità formale delle Costellazioni non è riducibile a un’indicazione di lettura, ma riguarda le possibilità aperte dall’emersione di questa rete. Nessuna mappa è neutra e nessuna mappa è mai definitiva; infatti, oltre alla trasformazione intrinseca delle superfici tradotte dal dispositivo di rappresentazione, è indispensabile tenere presente proprio la nuova dimensione entro la quale si percepisce la superficie con i significati aggiunti, o rivelati, dal sistema cartografico.

Le Costellazioni esprimono quindi un dato oggettivo ma lo legano inevitabilmente all’esperienza soggettiva, come è dichiarato nel titolo stesso del lavoro; il riferimento all’autore, ‘me’, suggerisce due parafrasi: la più diretta indica appartenenza e annuncia la costellazione in quanto messa in scena della rete relazionale che mi comprende e di cui sono il soggetto principale; la seconda dichiara invece il punto di vista: la costellazione che io vedo, quella che solo io posso delineare in quanto la emetto come punto di scaturigine. Questo riconduce alla peculiarità formale delle Costellazioni, che paiono tendere alla più piana chiarezza. Il limite di ogni strumento cartografico sta nella possibilità di decodificarlo, nella condivisibilità della sua legenda, cioè della chiave di accesso alle informazioni che contiene – “che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò: i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo” scrive Wittgenstein nelTractatus[v]. Bianco-Valente semplificano al massimo i codici necessari mettendo in evidenza l’aspetto complessivo: la natura rizomatica dei legami tra le persone, che si propone come concetto (appunto la costellazione) già nella sua stessa esistenza.

Mark Lombardi chiamava le proprie rappresentazioni grafiche di relazioni tra i poteri (politici, finanziari, e altre egemonie occulte) “narrative structures”, centralizzando così il senso del proprio lavoro sulla qualità dell’informazione che vi era contenuta e sul valore, quasi funzionale, del diagramma che la esprimeva. Le Costellazioni di Bianco-Valente percorrono questa stessa idea di conferire una capacità narrante al sistema che viene messo in opera, ma il superamento della prospettiva funzionale permette di dare spazio a sfumature di tono emotivo, intellettuale o addirittura affettivo. La connessione di strutture complesse (le persone) in una rete organizzata diventa così lo strumento per formulare una estetica dell’informazione, e dimostra (e contemporaneamente fortifica) l’esistenza di altri modelli di relazione. Il progetto si trova in linea, ancora una volta, con il punto di vista di Bateson: Costellazione di me rigetta un sistema dei rapporti interpersonali dominato da una gerarchia asettica di ascendenze e classificazioni, e ammette l’oscillazione del dubbio e dell’errore nella rappresentazione necessariamente parziale e imperfetta di un insieme, quello delle relazioni, che è propriamente instabile e flessibile anche nella dimensione del suo divenire.
L’astrazione richiesta dal disegno con cui si presenta la Costellazione è per sua natura irrelata rispetto al tempo che attraversa, e immette in questo suo limite la necessità di superare il disegno stesso. La Costellazione è implicitamente infinita, anche nel caso del progetto proposto a Bologna, in cui si riferisce a un sistema chiuso di contatti (concluso semplicemente per via dell’estinzione di tutti gli interlocutori coinvolti), perché la sua perfettibilità è congenita alla materia stessa di cui è fatta la conoscenza. Anzi, la visualizzazione stessa della rete tende proprio al chiarimento della sua capacità plastica, ma anche della sua inattendibilità, soggetta com’è all’arbitrio non solo di chi la compone (e definisce in questo modo i termini della sua estensione temporanea), ma anche di chi la legge.

Così Bianco-Valente assistono alla moltiplicazione radiale dei tracciati, allo slittamento di senso che possono assumere i trasferimenti di informazioni, attraversando i linguaggi e mediandosi negli strumenti, moltiplicando il fattore di alea costituito dal condizionamento culturale che compone la complessità del dato trasmesso (il riferimento, in particolare, è al progetto presentato a Marrakesh nel 2011). Il loro punto di vista mobile e fallibile, richiama la definizione che dava di sé Aby Warburg come “sismografo sulla linea di frattura tra le culture… per conoscere in essa la vita nella sua tensione tra i due poli costituiti dall’energia naturale, istintiva e pagana, e dall’intelligenza organizzata”[vi].

Note:
[i] Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago 1958, p. 8.

[ii] Ivi, p. 52.

[iii] Cfr. Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Torino 2009.

[iv] Lorenza Pignatti, Mind the Map, Milano 2011, p. 24.

[v] È la proposizione 5.62, Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 1922 (ed. it. A.G. Conte, a cura di, Torino 1995, p. 89).

[vi] Aby Warburg, Reise-Erinnerungen aus dem Gebiet der Pueblos, 1923; in G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Paris 2002 (ed. it.L’immagine insepolta, Torino 2006, p. 126).

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