Daniela Trincia, intervista a Bianco-Valente, 2013

Una Renault 5 rossa che sembra arrancare sulla strada in salita e sei persone, involontariamente divise in due bilanciati e simmetrici gruppetti di tre, di età differenti ma uniti nella stessa azione e passione; altri tre, spinti dalla curiosità, osservano dall’alto, con una finta diffidenza e indifferenza come a dire “sono qui di passaggio solo per riempire il tempo libero”… chi sta scrivendo una frase su un grigio muro con vernice azzurra. È questa la prima immagine (anche se in realtà è l’ultima, la numero 43) che ho visto aprendo la cartella zip che il duo Bianco-Valente (Giovanna Bianco, Latronico-PZ 1962; Pino Valente, Napoli 1967; vivono a Napoli) mi ha inviata affinché potessi vedere la documentazione fotografica del loro ultimo intervento a Bcharre, un piccolo centro di una comunità cristiano-maronita del nord del Libano, che si stende ai bordi della valle di Qadisha, non molto distante da Beirut e che ha dato i natali al celebre scrittore e pittore Khalil Gibran. In realtà avrei dovuto iniziare dalla prima immagine dove Giovanna, seduta su un divano, ascolta assorta un uomo mentre Pino è intento a prendere appunti e di lui si vede solo la mano che impugna una penna e un quaderno carico di parole: dettagli che probabilmente sarebbero stati degli indizi importanti. Ma forse anche questo percorso a ritroso delle foto, cioè dall’opera conclusa alla sua elaborazione e realizzazione, è anche un circuito che, senza intenzione, vuole lentamente rintracciare l’origine del tutto. Come il vento è, quindi, non solo il titolo dell’opera realizzata da Bianco-Valente durante una residenza di due settimane in questa cittadina, ma è anche e soprattutto un’esperienza oltre che artistica, di vita. Una “bellissima” esperienza che loro stessi mi hanno raccontato durante una lunga e piacevole chiacchierata telefonica a tre, con le voci che si rincorrevano e si sovrapponevano nell’entusiasmo di condividere le loro sensazioni e emozioni, ancora forti e vivide …

Iniziamo dalle domande classiche, quelle utili per inquadrare com’è nato questo lavoro e perché…
Pino Valente: circa un anno fa siamo stati contattati dalle curatrici Katia Baraldi e Laure Keyrouz diFront of Art, chiedendoci se volevamo partecipare al progetto A place for action. Da subito siamo stati felici di partecipare perché siamo molto attratti dalle culture medio orientali che, seppur di religione diverse, sono molto simili a noi. E così abbiamo accettato immediatamente. Un unico problema, il solito, quello di non avere molti fondi per cui Front of Art si è attivato per individuare sponsor privati per rendere possibile il progetto e ha ottenuto principalmente sponsorizzazioni tecniche, come quella della compagnia aerea che ha permesso di spostarci dall’Italia al Libano ogni volta sia stato necessario. L’idea di base è di portare l’arte contemporanea nei luoghi periferici. Consta di tre tappe, ognuna delle quali prevede la presenza anche di artisti del luogo affinché ci sia uno scambio. La prima è stata questa a Bcharre ad aprile, dove eravamo presenti noi e altri due artisti del libano; la seconda a maggio a Rocca Gloriosa nel cilento, sempre presenti noi e i due artisti cechi, e la terza sarà a ottobre in una cittadina della Repubblica Ceca, dove saranno presenti gli artisti libanesi e quelli cechi.
Giovanna Bianco: anche a Latronico, il paese da dove provengo, che è un piccolissimo paesino della Basilicata, si realizzano simili progetti per far uscire l’arte contemporanea dai musei e farla avvicinare anche ai non addetti ai lavori.
P. V.: …è anche un modo, per noi artisti, di mettersi in gioco e intrecciare la vita degli abitanti con l’arte contemporanea, che non deve essere necessariamente arte relazionale. Anche se finora abbiamo realizzato sempre progetti che si relazionano col territorio e le persone, tutte le volte evitiamo di andare con un’idea predeterminata affinché sia il luogo che ci spinga a creare il nuovo lavoro.


Com’è stata la Residenza?
G. B.: bellissima! Innanzi tutto abbiamo vissuto per quindici giorni in una famiglia dalla quale siamo stati accolti come suoi membri, ci siamo addirittura scambiati letti e non si sono messi in cerimonie.
P. V.: emozionante dal punto di vista umano. Abbiamo ricevuto un tipo di accoglienza e ospitalità uguale a quello raccontato dai nostri genitori in cui l’ospite è sacro. Il Libano è un mix di varie culture e ognuna ha lasciato una traccia. Come ad esempio il cibo: è mediterraneo, non fanno uso delle spezie e utilizzano i nostri stessi ingredienti ma combinati in modo diverso ottenendo così sapori insoliti. E ci ha molto impressionato anche la scrittura e la musica che sono legate all’Islam ma con elementi cristiani e ci ha affascinati questo corto circuito.
P. V.: il paese è piccolo e quindi, dopo un po’, tutti ci conoscevano. E ad esempio quando andavamo in un bar per prendere un caffè, alla cassa ci dicevano: “siete nostri ospiti, non dovete pagare”.
G. B.: questo tipo di ospitalità la vivi ancora nel sud, in Calabria, in Basilicata e in Sicilia, dove tutti sono molto accoglienti, un aspetto che abbiamo trovato anche lì. I primi giorni sono stati di conoscenza mentre la seconda fase è stata quella di incontrare le persone ed è stata molto intensa e impegnativa, perché si parlava con la gente e poi si trascrivevamo i racconti.


…e la famiglia come l’avete individuata?
G. B.: è la famiglia di una delle due curatrici.


… quindi vi siete sentiti un po’ a casa vostra …
G. B.: sì! Una casa caotica. Anche se il Comune aveva messo a nostra disposizione uno spazio con pc, noi stavamo molto a casa e la super-mamma veniva continuamente a portare del cibo.
P. V.: e si parlava molto ma con lingue diverse.
G. B.: loro parlano tranquillamente il francese, l’inglese e l’arabo e siamo rimasti impressionati da questo fatto. È una comunità piccola, però probabilmente sin da ragazzi iniziano a studiare le lingue, e sono persone molto colte e anche questo ci ha parecchio impressionato.
P. V.: sono molto attivi e veloci, nonostante le difficoltà che hanno, come ad esempio quello dell’elettricità. Ogni giorno, dispongono di sei ore elettricità e poi le successive quattro ore sono senza corrente e così via. Quando non c’è elettricità, possono attingere a quella dei generatori disposti dal comune, ma ovviamente ne devono fare un uso attento. Tutti vivono così anche a Beirut. Naturalmente ciò ha delle ripercussioni anche sul lavoro.


Avete detto che normalmente andate in un luogo senza un preciso progetto. Quello che poi avete realizzato, com’è nato?
G. B.: all’inizio temevamo di non riuscirci, perché quindici giorni sono pochi per pensare ad un progetto e realizzarlo, fino a valutare l’ipotesi di vivere queste due settimane come un primo step per pensarlo e poi, in un secondo momento, ritornare per produrlo. I primi giorni sono stati di conoscenza del territorio: ci hanno fatto incontrare le varie associazioni del posto e visitare la cittadina, dove la natura è bellissima; il paesino, fino agli anni ’50/60, aveva le case di pietra che poi sono state abbattute e ricostruite in cemento, ma quasi tutti i nuovi edifici non sono stati completati e il terzo piano è aperto, non finito. E questo è un contrasto molto forte, che abbiamo notato subito.
P. V.: tutti ci parlavano di questo passato in cui il paesaggio era più armonioso. Considera che Bcharre è vicina alla millenaria foresta dei famosi cedri libanesi, a delle stazioni sciistiche molto apprezzate, al più antico monastero maronita di Sant’Eliseo. L’idea è venuta subito dopo. Non si parlava della guerra, dei siriani che controllano il territorio. Considera che ogni 40/50 km ci sono dei posti di blocco dove le macchine devono rallentare e accendere la luce dell’abitacolo per farsi identificare. La Siria esercita una forte pressione sul Libano, e in Europa non arrivano le immagini del conflitto, ma loro non ne parlano. Inoltre, durante i conflitti, hanno combattuto libanesi contro libanesi, e per questo non hanno milite ignoto perché hanno combattuto contro se stessi. Noi abbiamo riflettuto su questo particolare, su questa paura e quest’angoscia inespresse, e li abbiamo invitati a tirare fuori quello che tengono dentro; dagli anziani cercavamo di farci dire quello che a loro mancava del passato. Le persone hanno iniziato ad aprirsi con noi, a raccontarci le loro storie, e noi siamo stati sempre molto attenti a non parlare della guerra. E parlando con loro, abbiamo notato che la maggioranza odia questi muri in cemento. Così abbiamo iniziato ad estrapolare dai loro racconti delle frasi; e quelle più significative, una decina, abbiamo deciso di trascriverle su questi muri per ingentilirli e rimettere in circolo i racconti stessi.
G. B.: abbiamo parlato tanto anche con i giovani, che si sono mostrati molto protettivi nei nostri confronti, cercando di non mandarci soli a Beirut, per il timore che la guerra potesse sconfinare.
P. V.: dopo aver individuato le frasi, ci siamo recati dal sindaco per le relative autorizzazioni. All’inizio abbiamo incontrato molta diffidenza che poi piano piano si è sciolta. Abbiamo scoperto che ogni comunità ha un calligrafo che ha il compito di scrivere in bella grafia i banner in lingua araba per avvertire la popolazione di qualcosa. E così la prima fase è stata quella di contattare questo calligrafo che ha tracciato i contorni delle frasi e noi abbiamo iniziato a dipingere. Ma anche le trascrizioni delle frasi, non è stata così immediata. A noi ci affascinavano delle frasi ma la lingua scritta è molto diversa da quella parlata, quindi non potevamo trascriverle come ci erano state dette, altrimenti non funzionavano, ed è stato necessario trasformarle per renderle pubbliche, confrontandoci con delle persone che si occupavano della lingua ed ognuna di loro cambiava sempre un dettaglio.
G. B.: infatti un giorno, mentre stavamo procedendo con la pittura di queste frasi, una macchina si è fermata e una persona è uscita con un foglietto in mano per farci capire che era opportuno apportare delle piccolissime modifiche ad alcune frasi. È stata complicata anche quest’operazione di trascrizione. Ad esempio: un vecchietto raccontava che quando lavorava nei campi le persone erano solidali tra loro e se qualcuno si trovava in difficoltà, lasciavano dei soldi sotto una pietra in forma anonima. E ci ha detto “eravamo come un cuore che ride in mezzo al campo”: una frase di grandissima poeticità che la volevamo trascrivere tal quale, ma invece abbiamo dovuto apportare delle piccoli variazioni.
P. V.: oppure, un ragazzo, raccontando della valle che per loro è santa perché lì si sono rifugiati i primi cristiani, ha detto: “quando io mi immergo (col doppio senso di immergersi nella valle e dentro se stesso) con uno sguardo solo puoi abbracciare cielo e terra”, ed invece abbiamo dovuto scrivere: “quando scendi nella valle con un solo sguardo puoi abbracciar la terra e il cielo”: insomma abbiamo dovuto correggere la forma. Ma alla fine, il senso del lavoro non sono le frasi ma il fatto di averle scritte insieme a tantissime persone che si sono aggiunte di volta in volta, facendosi coinvolgere dal nostro progetto. Ad esempio, abbiamo visto un muro che ci piaceva molto ma aveva già delle scritte e loro ci hanno detto: “non vi preoccupate ve lo aggiustiamo noi”, e così lo hanno sbiancato e sistemato. Alla fine eravamo due e tre gruppi che operavano contemporaneamente. Ma la cosa importante sono state le azioni. Il lavoro non si può dissociare da tutto questo.
G. B.: all’inizio il Sindaco e anche alcuni privati avevano posto alcuni veti, ma alla fine anche persone che ci vedevano ci invitavano a scrivere sui loro muri. Inoltre considera che il Sindaco ha bandito l’utilizzo di manifesti.
P. V.: e invece a noi ha permesso di realizzare queste scritte. Anche per i racconti uno tirava l’altro e loro ci consigliavano di andare da quella o quell’altra persona. È stato tutto un passaparola.


Secondo voi, perché negli abitanti è scattato questo coinvolgimento?
P. V.: per come ci siamo posti: venivamo sì da fuori, ma abbiamo scelto di scrivere in arabo e questo da parte loro è stato molto apprezzato perché tutto è scritto in francese o in inglese, e inoltre abbiamo usato frasi dei loro racconti e siamo stati, perciò, il tramite per rimettere in circolo queste riflessioni .
G.B.: erano frasi che riguardavano loro la loro memoria.


Ho visto che le frasi sono state realizzate utilizzando colori diversi e mi domandavo se ciascuna tinta avesse un particolare significato …
P. V.: inizialmente avevamo pensato di utilizzare il nero, ma poi scartato quest’idea perché loro l’associano ai messaggi politici e alla guerra e così deciso di farle a colori.



Chi vi ha aiutato a realizzare le scritte?
P. V.: inizialmente eravamo noi due, la curatrice Katia Baraldi, il calligrafo e un insegnante di Belle Arti venuto con una classe di bambini con i quali abbiamo realizzato la prima scritta. Poi un giorno si è fermato un autobus da proveniente da Beirut con a bordo studenti più grandi che sono scesi e hanno cominciato a leggere quello che avevamo scritto e ci hanno chiesto se potevano aiutarci. Con il passaparola sono venuti altri ragazzi e alla fine mancavano i pennelli.


Quando ho visto le immagini di Bcharre, immediata è stata l’associazione col video Entità risonante del 2009, come se quel tentativo di scrivere nell’acqua, con l’inchiostro che si disperdeva, prendesse poi corpo in questo lavoro …
P. V.: sì, bell’osservazione. In effetti sono molto vicini: in entrambi c’è l’idea dell’intreccio, di mischiare caratteri.


Con il tempo le scritte perderanno consistenza: avete in programma di andare di nuovo a Bcharre per verificarne le condizioni? Per
 restaurarli?
G. B.: il lavoro è stato pensato come permanente.
P.V.: Ne prenderanno cura.


Secondo voi cosa ha lasciato nelle persone?

G. B.: Quello che a noi è rimasto dentro di quelle persone, di collaborare, quindi dell’amicizia. E soprattutto un bagaglio di ricordi esperienziale.


L’arte può unire le persone?

P. V.: noi non riusciamo a scindere la nostra vita dal nostro lavoro; entrambi sono perfettamente integrati e non è possibile per noi sviluppare un lavoro a prescindere da quello che facciamo. E loro hanno apprezzato quest’azione. Quando modifichi una situazione pubblica attivi delle reazioni nelle persone e metti in circolo delle energie.


…e per le tempistiche?
P. V.: in due settimane il lavoro è troppo sincopato e stressante, con momenti di grande tensione. Per questo per gli appuntamenti successivi del progetto sono state previste tempistiche diverse: una prima fase di conoscenza, poi una fase di elaborazione del progetto nel proprio paese di provenienza e infine l’ultima fase di realizzazione.


Programmi futuri?

P. V.: un nuovo progetto arte pubblica, ciò ci piace molto perché c’è sempre idea della storia che diventa legame tra le persone. Se sarà realizzato, useremo per la prima volta un mezzo tecnologico, ma per noi non ha importanza il media, la cosa importante è di cosa si parla, cercando di lavorare con concetti i più universali possibili.


Alcuni giorni fa, ho assistito a un
 talk e uno dei relatori ha affermato che la peculiarità dell’arte è la sua gratuità, condividete?
P. V.: l’arte è gratuita, soprattutto quando è calata in uno spazio pubblico perché in ogni caso lo cambia, come un’architettura: qualunque cosa sia inserita in un luogo ne modifica la socialità, il modo in cui le persone stanno insieme. Non necessariamente attiva delle relazioni.
G. B.: Perché innesca altri atteggiamenti.
P. V.: come Napoli che è soggetta a cambiamenti continui che vivono insieme e non c’è soluzione di continuità. Altrimenti il luogo si spegne, muore, è senza anima.


…e la finalità della vostra arte qual è?

P. V.: scaturisce da come siamo noi, da come vediamo le cose.
G. B.: diventa anche il tentativo di fare in modo di mettere in relazione le persone.
P. V.: ci interessa vedere quanto le storie siano il legame con le persone; quanto una pluralità di storie crea tessuto sociale.


Quindi si basa sulla memoria collettiva?

P. V.: No, non sulla memoria, bensì sui legami e le differenze.


Un episodio particolare?

P. V.: nella casa che ci ha ospitato non c’erano chiavi alle porte, compresa quella del bagno. Così, la porta quando è chiusa, vuol dire che il bagno è occupato; quando è aperta, il bagno è libero: all’inizio questo ha creato un certo spaesamento che subito si supera perché si constata che la cosa funziona.


Nel 2010 avete realizzato
 L’insostenibile calma del vento, e anche in questo lavoro ritorna la parola vento: come mai? Che valore date al vento? Il vento comunque sembra un po’ essere l’elemento naturale molto sentito nel medio oriente, penso al libro e al film Il cacciatore di aquiloni che, seppur è ambientato in Afganistan, ha dei punti di contatto con il libano …
G. B.: Bell’osservazione. Il concetto di vento è un progetto che portiamo avanti da tempo. Concettualmente noi lavoriamo con qualcosa di impalpabile, come le relazioni. Il vento è importante perché è un elemento che porta al cambiamento, alla trasformazione, come i semi trasportati dal vento che fanno nascere altre cose, è un elemento di diffusione.


Un aggettivo che possa descrivere quest’esperienza?

P. V. e G. B.: (contemporaneamente): Bellissima!

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luglio 2013


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